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L’esodo degli istriano dalmati:una pagina mai scritta nei nostri manuali di storia
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L’esodo degli istriano dalmati:una pagina mai scritta nei nostri manuali di storia
di Matteo Bressan
goodmorningumbria.wordpress.com
L’immagine del piroscafo “Toscana” che nel febbraio del 1947 lascia Pola per recarsi a Venezia con il suo carico di sofferenze, di incertezze e di tanti perché è l’unica testimonianza documentaria di fonte anglo-americana che ci rende l’idea dell’esodo giuliano-dalmata.
In quei fotogrammi emerge buona parte del significato storico di quel drammatico evento: migliaia di famiglie che abbandonano la propria terra d’origine portando con sé pochissimi bagagli stanno a testimoniare una realtà in cui il Paese è sconfitto e mutilato di una parte dei suoi confini.
È un’immagine scomoda che si scontra con quella tendenza a relegare tutti i misfatti del fascismo al periodo di Salò che, insieme all’autocelebrazione dell’antifascismo, costituì il cardine della riabilitazione dell’Italia nel consesso delle nazioni.
Per questo motivo tacere sulle foibe e sull’esodo, relegando questi fatti a memoria locale giuliana senza farli entrare nella coscienza collettiva è il modo migliore per non parlare del Trattato di pace, della diminuzione della sovranità nazionale e del trattamento che fu riservato all’Italia come paese sconfitto .
Il fenomeno dell’esodo durò a lungo nel tempo dal 1943 al 1956 e fu segnato prima dagli eventi bellici e poi dai trattati di pace.
I momenti in cui si registrarono le più grandi ondate migratorie coincisero con il Trattato di pace del 1947 e con il Memorandum di Londra del 1953 anche se in alcuni casi, come l’esodo di Zara, risalgono addirittura al 1943-44 . La città dalmata fu infatti progressivamente abbandonata dagli Italiani a seguito dei bombardamenti aerei – 54 incursioni – che distrussero quasi totalmente il centro abitato provocando lo sfollamento di 17.000 persone.
Successivi a Zara sono gli esodi da Fiume tra il 1945 e il 1947 e da Pola dal 1947 in poi che rispecchiavano l’andamento dei negoziati per delimitare i nuovi confini.
La percezione della perdita di Fiume si diffuse tra la popolazione sin dall’ingresso delle truppe jugoslave il 2 e 3 maggio 1945 mentre la definitiva certezza della perdita di Pola, enclave fino al Trattato di pace sotto il controllo anglo-americano, si concretizzò con il passaggio di sovranità a favore della Jugoslavia il 15 settembre del 1947.
Contemporaneamente a questi esodi proseguivano le partenze dalle località dell’Istria affidate al governo militare dell’esercito jugoslavo e costituenti la Zona B.
La più grande ondata di partenze da questa zona (in particolare da Capodistria, Isola, Pirano, Umago, Grisignana) avvenne tra il 1954-55 a seguito della decisione dei governi degli Stati Uniti e Gran Bretagna di restituire all’Italia la Zona A (area costiera estesa da Monfalcone a Trieste) sancendo così l’assegnazione a titolo definitivo della Zona B alla Jugoslavia.
Uno dei caratteri fondamentali per la comprensione dell’esodo è che non dipese da provvedimenti formali di espulsioni riguardanti la generalità del gruppo nazionale italiano anche se non mancarono, da parte della autorità jugoslave, le iniziative mirate all’allontanamento coatto di individui e gruppi di popolazione ritenuti pericolosi per il regime.
In questo senso non si vuole affatto dire che l’esodo fu un scelta libera ed autonoma da un serie di politiche dirette a provocarla, ma al contrario la decisone di partire fu legata alle varie alternative esistenti tra le quali la strada impervia di dover abbandonare tutto finì per apparire come l’unica disponibile a salvaguardare, in molti casi, l’incolumità personale, la libertà e l’identità nazionale della comunità italiana.
Nel merito molto influì in queste decisioni la riorganizzazione economica secondo il modello statalista e socialista per cui la maggioranza del commercio venne affidato ad aziende statali e quello privato fu sottoposto a controlli rigidi e a continue accuse di accaparramento.
Va da sé che queste misure finirono con lo svantaggiare prevalentemente la comunità italiana che iniziò a manifestare anche negli ambienti operai il proprio senso di malessere.
In questo contesto le contromanifestazioni organizzate dal governo jugoslavo in risposta ad uno sciopero degli operai dei cantieri di Capodistria non esitarono a parlare di scioperi organizzati “dalla reazione fascista capodistriana che ha ingannato gli operai”.
Con queste prospettive l’unica speranza per i 250.000/300.000 Italiani fu di ricominciare una nuova vita in Italia o in paesi lontani come l’Australia.
La realtà dell’Italia fu però dura ed il Paese non riuscì ad accettare e a far comprendere agli Italiani il dramma dei profughi istriano-dalmati.
Il governo De Gasperi nel 1946 istituì l’Ufficio per le zone di confine, posto alle dipendenze della Presidenza del Consiglio, con competenze che non riguardarono solo l’assistenza ai profughi giuliano-dalmati ma anche il coordinamento generale delle azioni dello Stato nelle suddette regioni.
Insieme alle misure politiche adottate per l’assistenza, lo Stato Italiano predispose i provvedimenti legislativi mirati ad agevolare e sostenere chi si apprestava a ricominciare una nuova vita: il decreto legislativo dell’aprile del 1948 assegnava ai profughi un’indennità giornaliera di 100 lire per i capifamiglia e di lire 45 per gli altri componenti ed assicurava l’assistenza sanitaria negli ospedali convenzionati, nel 1952 la legge Scelba riservava ai profughi il 15% degli alloggi costruiti dagli Istituti autonomi delle case popolari (Iacp), nel campo lavorativo faceva obbligo alle ditte imprenditrici di assumere il 5% di manodopera tra tutte le categorie di profughi assistiti.
Questi ed altri furono i provvedimenti legislativi (164 secondo i calcoli di padre Flaminio Rocchi) che cercarono di sostenere, pur tra le molte difficoltà del Paese, con i ritardi e la frammentarietà degli interventi, il difficile inserimento dei profughi nel tessuto sociale.
A questi gesti umanitari ne seguirono altri di segno opposto dovuti allo scontro politico in atto in Italia nel dopoguerra.
Mi riferisco all’“accoglienza” manifestata dai lavoratori portuali di Venezia che, a più riprese, si rifiutarono di scaricare i bagagli degli esuli definiti “fascisti”, e alla protesta di attivisti ed operai comunisti che ad Ancona, inscenarono una manifestazione contro i profughi, ed ancora al caso forse più grave che avvenne alla stazione di Bologna dove i ferrovieri inscenarono una manifestazione contro un convoglio di esuli impedendo che questi potessero sostare per ricevere un pasto caldo preparato dalla pontificia opera di assistenza.
Sempre per speculazione di parte, per ortodossia di partito e per internazionalismo si chiudevano gli occhi di fronte a quelle immagini di vecchi, donne e bambini che si imbarcavano, dimenticandosi che i criminali di guerra italiani erano ormai già dal 1943 in fuga o impuniti e si negava il terrore delle foibe.
goodmorningumbria.wordpress.com
L’immagine del piroscafo “Toscana” che nel febbraio del 1947 lascia Pola per recarsi a Venezia con il suo carico di sofferenze, di incertezze e di tanti perché è l’unica testimonianza documentaria di fonte anglo-americana che ci rende l’idea dell’esodo giuliano-dalmata.
In quei fotogrammi emerge buona parte del significato storico di quel drammatico evento: migliaia di famiglie che abbandonano la propria terra d’origine portando con sé pochissimi bagagli stanno a testimoniare una realtà in cui il Paese è sconfitto e mutilato di una parte dei suoi confini.
È un’immagine scomoda che si scontra con quella tendenza a relegare tutti i misfatti del fascismo al periodo di Salò che, insieme all’autocelebrazione dell’antifascismo, costituì il cardine della riabilitazione dell’Italia nel consesso delle nazioni.
Per questo motivo tacere sulle foibe e sull’esodo, relegando questi fatti a memoria locale giuliana senza farli entrare nella coscienza collettiva è il modo migliore per non parlare del Trattato di pace, della diminuzione della sovranità nazionale e del trattamento che fu riservato all’Italia come paese sconfitto .
Il fenomeno dell’esodo durò a lungo nel tempo dal 1943 al 1956 e fu segnato prima dagli eventi bellici e poi dai trattati di pace.
I momenti in cui si registrarono le più grandi ondate migratorie coincisero con il Trattato di pace del 1947 e con il Memorandum di Londra del 1953 anche se in alcuni casi, come l’esodo di Zara, risalgono addirittura al 1943-44 . La città dalmata fu infatti progressivamente abbandonata dagli Italiani a seguito dei bombardamenti aerei – 54 incursioni – che distrussero quasi totalmente il centro abitato provocando lo sfollamento di 17.000 persone.
Successivi a Zara sono gli esodi da Fiume tra il 1945 e il 1947 e da Pola dal 1947 in poi che rispecchiavano l’andamento dei negoziati per delimitare i nuovi confini.
La percezione della perdita di Fiume si diffuse tra la popolazione sin dall’ingresso delle truppe jugoslave il 2 e 3 maggio 1945 mentre la definitiva certezza della perdita di Pola, enclave fino al Trattato di pace sotto il controllo anglo-americano, si concretizzò con il passaggio di sovranità a favore della Jugoslavia il 15 settembre del 1947.
Contemporaneamente a questi esodi proseguivano le partenze dalle località dell’Istria affidate al governo militare dell’esercito jugoslavo e costituenti la Zona B.
La più grande ondata di partenze da questa zona (in particolare da Capodistria, Isola, Pirano, Umago, Grisignana) avvenne tra il 1954-55 a seguito della decisione dei governi degli Stati Uniti e Gran Bretagna di restituire all’Italia la Zona A (area costiera estesa da Monfalcone a Trieste) sancendo così l’assegnazione a titolo definitivo della Zona B alla Jugoslavia.
Uno dei caratteri fondamentali per la comprensione dell’esodo è che non dipese da provvedimenti formali di espulsioni riguardanti la generalità del gruppo nazionale italiano anche se non mancarono, da parte della autorità jugoslave, le iniziative mirate all’allontanamento coatto di individui e gruppi di popolazione ritenuti pericolosi per il regime.
In questo senso non si vuole affatto dire che l’esodo fu un scelta libera ed autonoma da un serie di politiche dirette a provocarla, ma al contrario la decisone di partire fu legata alle varie alternative esistenti tra le quali la strada impervia di dover abbandonare tutto finì per apparire come l’unica disponibile a salvaguardare, in molti casi, l’incolumità personale, la libertà e l’identità nazionale della comunità italiana.
Nel merito molto influì in queste decisioni la riorganizzazione economica secondo il modello statalista e socialista per cui la maggioranza del commercio venne affidato ad aziende statali e quello privato fu sottoposto a controlli rigidi e a continue accuse di accaparramento.
Va da sé che queste misure finirono con lo svantaggiare prevalentemente la comunità italiana che iniziò a manifestare anche negli ambienti operai il proprio senso di malessere.
In questo contesto le contromanifestazioni organizzate dal governo jugoslavo in risposta ad uno sciopero degli operai dei cantieri di Capodistria non esitarono a parlare di scioperi organizzati “dalla reazione fascista capodistriana che ha ingannato gli operai”.
Con queste prospettive l’unica speranza per i 250.000/300.000 Italiani fu di ricominciare una nuova vita in Italia o in paesi lontani come l’Australia.
La realtà dell’Italia fu però dura ed il Paese non riuscì ad accettare e a far comprendere agli Italiani il dramma dei profughi istriano-dalmati.
Il governo De Gasperi nel 1946 istituì l’Ufficio per le zone di confine, posto alle dipendenze della Presidenza del Consiglio, con competenze che non riguardarono solo l’assistenza ai profughi giuliano-dalmati ma anche il coordinamento generale delle azioni dello Stato nelle suddette regioni.
Insieme alle misure politiche adottate per l’assistenza, lo Stato Italiano predispose i provvedimenti legislativi mirati ad agevolare e sostenere chi si apprestava a ricominciare una nuova vita: il decreto legislativo dell’aprile del 1948 assegnava ai profughi un’indennità giornaliera di 100 lire per i capifamiglia e di lire 45 per gli altri componenti ed assicurava l’assistenza sanitaria negli ospedali convenzionati, nel 1952 la legge Scelba riservava ai profughi il 15% degli alloggi costruiti dagli Istituti autonomi delle case popolari (Iacp), nel campo lavorativo faceva obbligo alle ditte imprenditrici di assumere il 5% di manodopera tra tutte le categorie di profughi assistiti.
Questi ed altri furono i provvedimenti legislativi (164 secondo i calcoli di padre Flaminio Rocchi) che cercarono di sostenere, pur tra le molte difficoltà del Paese, con i ritardi e la frammentarietà degli interventi, il difficile inserimento dei profughi nel tessuto sociale.
A questi gesti umanitari ne seguirono altri di segno opposto dovuti allo scontro politico in atto in Italia nel dopoguerra.
Mi riferisco all’“accoglienza” manifestata dai lavoratori portuali di Venezia che, a più riprese, si rifiutarono di scaricare i bagagli degli esuli definiti “fascisti”, e alla protesta di attivisti ed operai comunisti che ad Ancona, inscenarono una manifestazione contro i profughi, ed ancora al caso forse più grave che avvenne alla stazione di Bologna dove i ferrovieri inscenarono una manifestazione contro un convoglio di esuli impedendo che questi potessero sostare per ricevere un pasto caldo preparato dalla pontificia opera di assistenza.
Sempre per speculazione di parte, per ortodossia di partito e per internazionalismo si chiudevano gli occhi di fronte a quelle immagini di vecchi, donne e bambini che si imbarcavano, dimenticandosi che i criminali di guerra italiani erano ormai già dal 1943 in fuga o impuniti e si negava il terrore delle foibe.
Sam- Età : 35
Località : Gangi
Indirizzo di studi : Storia
Campo di ricerca : Età contemporanea
Data d'iscrizione : 24.09.08
Numero di messaggi : 234
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