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L’impero ittita dalle origini alla sconfitta egiziana di Kadesh

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Messaggio  Sam Dom Feb 27, 2011 3:31 pm

di Gianluca Padovan
www.rinascita.eu

Alle origini
Chi c’era prima. Non è una domanda, ma un’affermazione, nel senso che prima di noi c’è sempre stato qualcuno, su questa Terra. L’eccezione la troviamo nelle profondità: sotto il livello delle acque e sotto la superficie del suolo, ovvero nelle profondità di laghi, mari, oceani e nelle grotte. A taluni di noi piace essere i primi ad arrivare in un dato posto e la certezza la possiamo avere quando varchiamo i Cancelli della Terra, spingendoci nella verticalità di quei vuoti che gli speleologi chiamano abissi.
In caso contrario, ovvero quasi sempre, nel luogo che percorriamo c’è già stato qualcuno, una civiltà è fiorita, un’altra è rimasta eclissata nella polvere dei millenni e l’essere umano si è trasferito, ha combattuto, ha scritto e ha prodotto manufatti che noi oggi cerchiamo d’interpretare. Se scaviamo troviamo sempre le nostre radici, magari sotto la collina vicina a casa nostra. E forse è meglio preservarla che demolirla con l’apertura di una cava o ricavandovi sotto un parcheggio.
Il tell è una struttura apparentemente naturale, che in lingua araba identifica un monte, una collina. In paletnologia il termine indica le colline artificiali formatesi con la sovrapposizione di strutture abitative nel corso di lunghi periodi di tempo. Quando li si scava si ha la sorpresa di sfogliare secoli e secoli di abitazioni, diligentemente costruite una sulle ceneri dell’altra. L’indagine presso il tell di Çatal Hüyük ha rivelato l’esistenza di più di dieci livelli di strutture, abitate tra il VII e il VI millennio a. Accanto vi è un secondo tell, altrettanto interessante dal punto di vista archeologico. Si trovano nella parte meridionale della Turchia, in un territorio che un tempo aveva un aspetto diverso da oggi. E i popoli chiamati Hatti o Chatti o Ittiti che successivamente giungono in Anatolia non sono i primi e nemmeno gli ultimi.

I biondi Ittiti
Gli Ittiti sono definiti come un antico popolo dell’Asia Minore, che riveste una grande importanza dal punto di vista politico, militare e culturale tra il XVIII e il XII sec. a. Taluni sostengono che i primi gruppi giungono nel territorio già alla metà del III millennio a., secondo l’interpretazione di alcune tavolette d’argilla assire che parlano dell’arrivo di “nuove genti”. Secondo altri la data è da fissare o alla fine del III millennio oppure agli inizi del successivo, ma ecco l’invasione vista da Lehman: “Una cosa soltanto è sicura: non irruppero improvvise e inaspettate in Anatolia da una qualche parte della terra. Quindi bande di cavalieri selvaggi non si riversarono a schiere sul paese, né orde di saccheggiatori e di predoni occuparono città e villaggi, né giunsero barbari a distruggere civiltà straniere, massacrare gli uomini e rapire le donne. Queste immagini stereotipate di popoli invasori in cerca di terra non si adattano al nostro caso” (Lehman J., Gli Ittiti, Garzanti, Milano 1997, p. 171).
Uno dei “gruppi” si stanzia al centro dell’Anatolia, in quella che viene chiamata Terra di Hatti, con capitale Hattusa. Il loro regno, unitamente agli stati vassalli, si estende dagli stretti del Bosforo e dei Dardanelli fino all’orientale Lago di Van. Hanno una lingua europea, o meglio più lingue, che scrivono in vari modi appresi dalle popolazioni locali e sviluppati: cuneiforme in lingua accadica, cuneiforme in lingua ittita, ideografico, etc. In ogni caso la maggior parte dei documenti cuneiformi su tavolette d’argilla sono in “ittito”, termine che viene applicato alla lingua ufficiale dell’impero. Chiamano sé stessi hari, “i biondi”. In una tavoletta si parla del trono del re che è in ferro, mentre in altre si leggono di conquiste, commerci, dispute. Sono uno stato federativo, con un governo centrale, il cui ordinamento sociale è suddiviso in classi, ma non rigidamente. Pare che le religioni siano diverse, convivendo in una sorta di tranquilla tolleranza. Compaiono divinità solari e un dio della tempesta, rappresentato nell’atto di reggere la scure con una mano e la folgore con l’altra.

Le razze bianche in oriente
Intanto giunge sulla scena anche una nuova popolazione che gli egizi chiamano Heka-Kasut, ovvero “capi dei paesi stranieri”, comunemente conosciuti con il nome di Hyksos. Sono una popolazione definita asiatica, che in realtà presenta i tipici connotati europoidi, con caratteri marcatamente xantocroici (alti, chiari di pelle, con occhi anch’essi chiari e capelli biondi, rossi, castani); dominano l’Egitto dalla fine del XVIII secolo a. fino all’inizio del XVI secolo a. Stabilitisi inizialmente nei dintorni di Avaris, loro capitale, estendono il potere su tutto l’Egitto. I re delle due dinastie Hyksos, la XV e la XVI (1730-1570 circa a.), adottarono usi e costumi egizi e si proclamarono faraoni, trascrivendo i loro nomi in geroglifici e assumendo a volte nomi egizi. Agli inizi del XVI sec. i re di Tebe si organizzarono e scacciarono gli Hyksos dall’Egitto; Ahmose, futuro fondatore della XVIII dinastia, conquista Avaris e li insegue fino in Siria.
Successivamente, tra il 1650 e il 1600 a., i sovrani ittiti Khattushili I e Murshili I penetrano in Siria e in Mesopotamia e viene posto il termine alla prima dinastia amorrea di Babilonia. Ne approfittano i Cassiti (o Kassiti, o Cossèi), popolo con forti connotati europoidi, anche loro utilizzanti il cavallo e il carro da guerra, che s’appropriano del paese governandolo fino alla metà del XII sec. a. Tali Cassiti, pare con pacifica migrazione, si erano già insediati in Mesopotamia come agricoltori, artigiani e guerrieri mercenari, provenendo dall’Elam nell’area iranica. Il tempo passa e gli Ittiti conquistano il paese dei Mitanni, stato Hurrito che in una fascia compresa tra le odierne Siria e Turchia si spinge nell’area superiore dei fiumi Eufrate e Tigri. Lo stato è governato da una monarchia ereditaria, probabilmente di stirpe indo-iranica, con una classe dominante che scrive in una lingua definita acriticamente “indoeuropea”, ovvero europea (dal momento che le migrazioni sono avvenute dall’Europa all’India e non viceversa), simile al sanscrito e all’antico persiano. Gli Hurriti fanno atto di sottomissione al re ittita Suppiluliuma attorno al 1365 a. Come gli Ittiti avanzano, ottenendo consensi, i vicini egizi non fanno attendere l’attrito.

Soldati egizi e guerrieri Sciardana
Circa mezzo secolo più tardi il re ittita Muwatalli non è battuto a Kadesh dal faraone Ramesse II, anche se nel tempio di Luxor gli egiziani inneggiano ad una strepitosa vittoria, ma solo per mera propaganda, per celare al popolo la sconfitta del proprio re. Kadesh, o Qadesh, si trova nell’entroterra siriano, a poco più di cento chilometri a nord di Damasco, nei pressi del Lago di Homos. Verso la fine del mese di maggio del 1300 a. (alcune fonti riportano altre date) il faraone Ramesse II guida personalmente l’esercito egizio suddiviso in quattro divisioni da circa cinquemila uomini l’una, di cui mille costituenti gli equipaggi dei cocchi. Abbiamo quindi due soldati per cocchio e quindi duecentocinquanta cocchi per ogni divisione. Si calcolerebbe così un totale di circa sedicimila fanti e arcieri, duemila cocchi con quattromila uomini che li montano; vi sono inoltre le salmerie con un numero imprecisato di persone. Una quinta divisione egizia li raggiungerà nel corso della battaglia, provenendo da Amurru. Parte della guardia reale è formata da guerrieri Sciardana “stranieri” (Shardanes, Sardani, Sardi o semplicemente Popoli del Mare) armati con lunghe spade, scudi circolari ed elmi con le corna, provenienti indicativamente dal Mare Mediterraneo (Healy M., Qades 1300 a.C. Lo scontro dei re guerrieri, Osprey Military, Ediciones del Prado, Madrid 1999, p. 43). Se guardiamo alcune statuine in bronzo del IX-VIII sec. a. rinvenute in siti nuragici, ci rendiamo conto che possono tranquillamente essere loro, i Nur. Gli abitanti della Corsica devono averli già conosciuti con spiacevoli conseguenze e hanno eretto qualche menhir antropomorfo con le loro fattezze: spade, pugnali ed elmi con le corna (Grosjean J., Virili F. L., Guide des sites Torréens de l’Age du Bronze Corse, Éditions Vigros, Paris 1979, pp. 15-17). I testi egizi li chiamano: “i guerrieri del mare, gli Sherden senza padroni, che nessuno aveva potuto contrastare. Essi vennero coraggiosamente dal mare nelle loro navi da guerra con le vele, e nessuno era in grado di fermarli, ma Sua Maestà li disperse con la forza del suo braccio valoroso e li trascinò [prigionieri] in Egitto”, e che nei rilievi egizi sono rappresentati alti, robusti, di pelle chiara” (Cimmino F., Ramesses II il Grande, Rusconi, Milano 1984, p. 95-96).
L’avversario da affrontare è il re ittita Muwatalli, al comando di un esercito forse più numeroso. Una differenza è data dal cocchio, o carro da guerra: quello ittita è montato da tre uomini, stando alle deduzioni epigrafiche. Secondo Healy lo scenario è il seguente: il fiume Oronte scorre da sud a nord e poco prima del Lago di Homos riceve da sinistra le acque dell’Al-Mukadiyah. Internamente alla confluenza vi è la città di Kadesh nuova già occupata dagli Ittiti, a nord est e quindi alla destra idrografica sorge la Kadesh vecchia, anch’essa occupata dall’esercito ittita, mentre a nord ovest il faraone pone il proprio campo con la divisione Amon e il suo seguito, apparentemente ignaro del fatto che viene tenuto sotto controllo visivo dagli Ittiti. Ma poi se ne accorge e manda a chiamare con una certa urgenza il resto dell’esercito (Healy M., op. cit., pp. 47-59.).

Ramesse II sconfitto a Kadesh
Si hanno due resoconti egiziani della battaglia: il Bollettino e il Poema di Pentaur. Le interpretazioni sull’esatto svolgersi dei fatti sono contrastanti, si suppone che qualcuno non abbia fatto il proprio dovere nel corso delle ricognizioni, qualcun altro non avrà invece eseguito gli ordini fino in fondo; nulla di nuovo nella Storia, in ogni caso. La divisione Ra solca velocemente la pianura alla sinistra orografica dell’Oronte, seguita a distanza dalle divisioni Pthah e Sutekh. L’obiettivo è di raggiungere l’accampamento trincerato della divisione Amon.
Le divisioni ittite, con i carri da guerra in testa, sbucano improvvisamente al di là dell’Al-Mukadiyah, piombano sul fianco destro della divisione Ra, la tagliano in due e la mettono in fuga; molti si danno al saccheggio delle salmerie, “dimenticandosi” di dare man forte per attaccare la divisione Amon. Gli Ittiti proseguono la corsa e piombano sul campo trincerato, si scompaginano combattendo sparpagliati e predando quel che riescono tra le ricche tende. Ramesse II riesce comunque a schierare la sua guardia e gli Sciardana si mostrano all’altezza della situazione; personalmente credo si comportino con valore facendo muro e bloccando l’assalto con vigore. Appena organizza i suoi carri da guerra, unendoli ai sopraggiunti superstiti della Ra, Ramesse II contrattacca. Intanto che la colonna ittita si ritira sotto la spinta della reazione avversaria, sopraggiunge una seconda ondata di carri ittiti a dare man forte, ma in ritardo sui tempi. Il risultato è che questa si trova probabilmente presa tra i cocchi di Ramesse II e la quinta divisione, la Ne’arin, che quasi inaspettatamente arriva da nord con i cavalli lanciati al galoppo. La giornata si chiude in una coltre di polvere entro cui si combatte senza coordinamento, senza più schemi tra reparti che avanzano, altri che ripiegano, altri ancora che vogliono la loro parte di bottino. Infine le divisioni ittite si ritirano non senza difficoltà alla destra orografica dell’Oronte, sui loro accampamenti, mentre le malmesse divisioni Amon e Ne’arin si riuniscono a quello che rimane della Ra. Per alcuni storici il combattimento riprende il giorno seguente, appena giungono le divisioni Pthah e Sutek, per altri no. O meglio, secondo alcune interpretazioni, il faraone passa la giornata a giustiziare alcuni superstiti della Ra, che se la sono data a gambe, tanto per dare un esempio e ricordare che la vigliaccheria è punita con la morte. Poi l’esercito egizio ripiega, ovvero se ne torna a casa, e quello ittita lo segue per un tratto: questo vuole solo dire che gli egiziani sono stati comunque battuti, fosse anche solo di stretta misura (Ibidem, pp. 44-82). Calzante o meno, tale ricostruzione non muta l’esito conclusivo, ovvero la firma del trattato di pace tra Egiziani e Ittiti. Si stipula un equo riconoscimento delle terre su cui governare attorno a quel confine che Ramesse II non è riuscito a spostare più a nord di Kadesh, con la mancata vittoria campale. Quattro interessanti versioni della vicenda sono date da Bibby, Ceram, Cimmino e da Healy (Bibby G., 4000 anni fa, Einaudi, Torino 1966, pp. 260-262. Ceram, Il libro delle rupi. Alla scoperta dell’impero degli Ittiti, Einaudi Editore, Torino 1955,, pp. 192-208. Cimmino F., op. cit., pp. 94-112. Ealy M., op. cit., pp. 44-82).
Il trattato di pace è successivamente rafforzato con il matrimonio tra Ramesse II e figlia di Hattushilish III, successore di Muwatalli. Nel carteggio di questo periodo il contenuto di una lettera inviata dal re di Hatti a Ramesse II merita di essere ricordato: “Per il ferro del quale mi scrivi, io per ora non ho ferro puro a Kizzuwatna nelle mie riserve. Non è il periodo favorevole per fare il ferro; tuttavia ho chiesto di fare ferro puro; fino ad ora non è finito, ma non appena sarà pronto te lo manderò. Per ora posso mandarti soltanto una spada di ferro” (Cimmino F., op. cit., p. 130).

L’importanza dell’impero Ittita
Si arriva alla fine del II millennio a. e comincia l’espansione assira con Tiglatpileser I (1112-1074): Re assiri, avidi di conquiste, premevano ai confini. Uno dei più fedeli vassalli occidentali, Madduwattas, si staccò improvvisamente, presentendo il sorgere di una nuova potenza. La regione di Arzawa accrebbe la sua influenza in modo preoccupante, e gli Ahhiyawa (forse davvero Achei, cioè Greci primitivi) andavano creando a occidente una potenza minacciosa. Il grande impero che Suppiluliumas aveva costruito e che aveva retto per un secolo, scomparve in due generazioni, nelle deboli mani di Tudhaliyas IV (1250-1220 a.C.) e in quelle ancor più deboli di Arnuwandas IV (1220-1190 a.C.). L’uno e l’altro non furono in grado né di mantenere la costruttiva politica di pace di Hattusilis, né di riprendere con la spada ciò che perdevano per via diplomatica. Su questa repentina caduta di un grande impero, molte congetture sono state avanzate. Ma la soluzione è semplice: si annunziava una nuova migrazione di popoli. E qualora si obiettasse che questo non basta a spiegare la “rapidità” del crollo di un “Imperium”, ricordiamo che nel nostro Occidente si è molto riflettuto negli ultimi centocinquanta anni, da Kant in poi, sui concetti di spazio e di tempo, ma che i concetti di “spazio storico” non sono ancora stati studiati nel loro valore relativo (Ceram, op. cit., pp. 217-219).
Pare che arrivino Misi e Frigii, che qualcuno identifica come altri Popoli del Mare; in ogni caso Hattusas brucia dopo il saccheggio. La cultura ittita sopravvive ancora per cinque secoli nelle regioni sudorientali. Poi scompare senza lasciare alcuna traccia, se non nelle tavolette d’argilla e nelle epigrafi. Kurt W. Marek, alias Ceram, conclude così il suo lavoro Il libro delle rupi. Alla scoperta dell’impero Ittita, scritto nel 1955: “Settant’anni fa gli Ittiti e il loro impero erano ancora ignoti. Ancor’oggi si insegna nelle scuole che sono stati soltanto l’impero mesopotamico e il regno d’Egitto a determinare, dal punto di vista politico-militare, la sorte dell’Asia minore e dell’Asia anteriore. Ma accanto ad essi e fra di essi ci fu per un certo tempo il grande impero ittita, con pari diritti come “terza potenza” e la sua capitale Hattusas fu alla pari di Babilonia e di Tebe, anche se non dal punto di vista della civiltà, tuttavia per una singolarissima forza e importanza “politica” (Ibidem, p. 274).
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