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Messaggio  PANORMUS734 Mar Ott 26, 2010 2:28 pm

IL REGNO DI SICILIA
Le Origini
La nascita del Regno di Sicilia è da ricondurre ad una vicenda che vide coinvolti, nel 1130, Papa Innocenzo II e il suo Antipapa Anacleto II, entrambi successori di Onorio II, nonché Ruggero II d'Altavilla, Conte di Sicilia, Duca di Calabria e Puglia fin dal 1128 per mano dello stesso Onorio II.
Nella notte tra il 13 e 14 febbraio 1130 moriva Papa Onorio II (Lamberto Scannabecchi) e, immediatamente, all'interno del Collegio Cardinalizio, si riaccese la lotta per la successione tra le stesse due fazioni che già si erano scontrate, pochi anni prima (1124), in occasione dell'elezione dello Scannabecchi. I sedici porporati facenti capo alla famiglia dei Frangipane, guidati dal Cardinal Aimerico, elessero Papa il Cardinal Gregorio Papareschi che assunse il nome di Innocenzo II. Gli altri quattordici porporati, facenti capo alla famiglia dei Pierleoni, elessero Papa il Cardinal Pietro Pierleoni che assunse il nome di Anacleto II. Poco tempo dopo il Pierleoni riuscì a far convergere su di sé il gradimento anche di alcuni cardinali che avevano eletto il Papareschi, raccogliendo in tal modo la maggioranza dei voti del Collegio e accreditandosi, di conseguenza, come legittimo Pontefice.
Poiché Innocenzo II non intendeva rinunciare alla tiara, si aprì un vero e proprio scisma all'interno della Chiesa di Roma che finì per coinvolgere soprattutto elementi non ecclesiastici, ovvero alcuni grandi Stati d'Europa, come l'Inghilterra, la Francia e la Germania che, unitamente a gran parte dell'Italia, appoggiavano Innocenzo II. Papa Anacleto II, bersagliato anche per le sue origini ebraiche e completamente isolato chiese l'appoggio dei Normanni del Duca Ruggero II, al quale offrì, in cambio, la corona regia. La dinastia degli Altavilla, cui apparteneva il duca, avevano già conquistato la Sicilia, rendendola un punto cardinale nei traffici e nell'economia del mondo dell'epoca.
Il Duca non si lasciò sfuggire l'occasione e concluse, nel settembre 1130, una vera e propria alleanza militare con il Papa, in seguito alla quale questi emise una Bolla che consacrava il Conte di Sicilia, nonché Duca di Calabria e di Puglia, Rex Siciliae. Dopo di che, nella notte di Natale del medesimo anno, riprendendo un cerimoniale già visto nel lontano anno 800 in occasione dell'incoronazione di Carlo Magno, fu incoronato a Palermo come Ruggero II, Re di Sicilia, Puglia e Calabria.

Il periodo normanno
Il Regno di Sicilia nasceva, quindi, nella notte di Natale del 1130 per mano di un Antipapa, Anacleto II e veniva affidato nelle mani del figlio di colui che aveva conquistato la Sicilia, (Ruggero I d'Altavilla), a sua volta figlio di Tancredi d'Altavilla. Il Regno di Sicilia nasceva all'insegna della dinastia normanna degli Altavilla e comprendeva non soltanto l'isola cosiddetta di Trinacria, ma anche le terre di Calabria e Puglia.
Innocenzo II, però, ritenendosi legittimo Pontefice, promulgò la scomunica nei confronti di Anacleto II e dichiarò nulli tutti i suoi Atti. In una serie di Concilii successivi, Reims (1131), Piacenza (1132), Pisa (1135) fu riconosciuto come tale da Inghilterra, Spagna, Francia, Lombardia, Milano, Germania. Ebbe anche a incoronare Imperatore, il 4 giugno del 1133 in San Giovanni in Laterano, Lotario II.
Ormai Anacleto II poteva contare soltanto sull'appoggio della città di Roma, dell'Italia meridionale e dei Normanni di Re Ruggero II. Poiché lo scisma tra i due Pontefici appariva insanabile, fu giocoforza il ricorso alle armi, soprattutto perché l'Imperatore Lotario era sollecitato in tal senso dai continui interventi di Bernardo di Chiaravalle, nemico accesissimo di Anacleto II.
Con la discesa in Italia di Lotario, ebbe inizio una lunga guerra tra l'Impero e i Normanni che vide Re Ruggero perdere progressivamente i territori dell'Italia peninsulare. Ripartito Lotario nell'ottobre del 1137, Ruggero riconquistò Salerno, Avellino, Benevento e Capua. Anche Napoli, dopo un anno di assedio, fu costretta a capitolare nel 1137 e proprio in seguito alla ripartenza di Lotario.
Nel dicembre del 1137 moriva l'Imperatore Lotario e qualche mese dopo, il 25 gennaio del 1138, moriva anche l'Antipapa Anacleto II. La famiglia dei Pierleoni elesse un nuovo Antipapa nella persona del Cardinal Gregorio con il nome di Vittore IV, ma la rinuncia di questi nel maggio del 1138, a tre mesi dall'elezione soprattutto dietro sollecitazione di Bernardo di Chiaravalle, diede il via libera alla piena legittimazione di Innocenzo II, che ebbe il riconoscimento, nel maggio 1138, anche da parte dei Cardinali fedeli alla famiglia dei Pierleoni. Aveva termine, così, lo scisma all'interno della Chiesa di Roma.
Nei primi mesi del 1139 ebbe luogo il Concilio Lateranense che confermò l'illegittimità di Anacleto II e la nullità di tutti i suoi Atti. Il Concilio ebbe a ribadire, ancora, la scomunica nei confronti dell'Antipapa e di Ruggero. Dopo di che il Pontefice stesso, alla testa di un forte esercito si mosse contro Ruggero. Ma le superiori doti militari del normanno lo portarono addirittura ad essere preso in ostaggio, presso Montecassino, Papa Innocenzo, il quale, preso atto di non poter reggere il confronto con il nemico, dovette confermargli la corona regia. Il giorno 27 del mese di luglio del 1139, nei pressi di Mignano fu redatto il privilegio mediante il quale si confermava la elevatio in regem, unitamente all'annessione del territorio di Capua.
In seguito gli Altavilla si dedicarono ad espandere il proprio reame, annettendo Napoli verso nord ma anche e soprattutto vari territori nord africani (Malta, Gozo e una parte dell'Africa settentrionale, compreso l'entroterra tra Bona e Tripoli) e Corfù in Dalmazia. Nel 1146 una grossa flotta siciliana al comando di Giorgio d'Antiochia, ammiraglio di Ruggero II, partì da Trapani e conquistò Tripoli, che rimase sino alla fine del secolo sotto il Regno di Sicilia.
Ruggero II morì nel 1154. I suoi successori furono:
• Guglielmo I (1154 – 1166)
• Guglielmo II (1166 – 1189)
• Tancredi (1189 – 1194)
• Ruggero III (Non incoronato)
• Guglielmo III (1194 – 1194).

Il periodo degli Svevi
La dominazione sveva in Sicilia ebbe inizio con il matrimonio fra Enrico VI, figlio dell'imperatore Federico Barbarossa, e Costanza d'Altavilla, figlia di Ruggero II e sorella di Guglielmo il Malo. Alla morte senza discendenti diretti di Guglielmo II il Buono (1189), scoppiò una guerra per la successione al trono; il sovrano, moribondo, designò come sua erede Costanza, ma i grandi elettori e lo stesso Papa preferirono eleggere Tancredi, conte di Lecce, poiché non vedevano di buon occhio Enrico VI, deciso ad intervenire attivamente nella politica italiana.
Non appena Tancredi, nel novembre del 1189, fu incoronato a Palermo, l' imperatore scese in Italia e mosse guerra al sovrano normanno, avvalendosi dell'appoggio della flotta pisana. Tuttavia Tancredi riuscì a respingere l'offensiva di Enrico e far prigioniera Costanza; in cambio del suo rilascio, lo Svevo fu obbligato a stipulare un trattato di pace.
Nel 1194 Tancredi morì e l'imperatore riuscì a cingere la corona siciliana il 25 dicembre dello stesso anno, il giorno dopo nacque Federico II[1].
Morto prematuramente Enrico VI nel 1197, gli successe l'ancora infante Federico II; per lui, come reggente, governò Costanza e alla sua morte (1198) Papa Innocenzo III. Principale preoccupazione del Pontefice fu quella di mantenere distinti Impero e Regno di Sicilia; per questo affidò il giovane re ad un consiglio di reggenza, riconoscendogli la successione al trono siciliano, mentre in Germania sostenne Ottone IV di Brunswick, candidato guelfo contrapposto a Filippo di Svevia, zio di Federico. Assasinato il rivale, Ottone ebbe la corona imperiale (1208), ma quando non mantenne i patti stipulati con il Papa in precedenza, questi iniziò a sostenere i diritti alla successione del giovane Federico, eletto Re di Germania e Re dei Romani nel 1212. Essendo conscio della sua debolezza politica, Federico accettò di limitare l'ingerenza della corona negli affari della Chiesa siciliana e concesse ampie autonomie ai grandi signori dell'Impero (Bolla d'oro d'Eger, 1213). Sconfitto Ottone a Bouvines, Federico fu incoronato Re di Germania nella Cappella palatina di Aquisgrana. Come condizione per l'ascesa al trono lo Svevo promise a Innocenzo di non unire in un'unica entità statuale Impero e Regno di Sicilia. Tale giuramento fu poi disatteso dal re una volta morto il Pontefice e nel 1222 fece eleggere Re dei Romani e Re di Germania il figlio Enrico (già "re collega" di Sicilia).
L'unione personale del regno e dell'Impero pare sia stata accettata dal nuovo Papa Onorio III, anche se questi pretese che non venisse trasmessa ai discendenti. Dopo aver preso la croce, Federico fu finalmente incoronato imperatore nel 1220. Nonostante la parola data, il sovrano non partì per la Quinta crociata e si dimostrò più interessato a mettere sotto controllo la riottosa nobiltà siciliana.
Scomunicato per aver ritardato la sua partenza per la Terra Santa (1227), Federico, mantenuto il suo voto crociato, ottenne la cessione di Gerusalemme da parte del Sultano d'Egitto e fu incoronato Re di Gerusalemme nel 1229. Tale risultato positivo del passagium da lui guidato, fu però offuscato dalla crociata che il Papa gli rivolse contro proprio per essersi accordato con un "infedele". Costretto a tornare in fretta in Italia per contrastare l'esercito papale, raggiunse un accordo (pace di Ceprano, 1230) in base al quale egli rinunciava al suo diritto a confermare le nomine vescovili in Sicilia in cambio della revoca della scomunica.
Approfittando di un periodo di pace, il sovrano si dedicò agli affari interni dei suoi domini; in Sicilia, dopo le due assise di Capua e Messina (1220-1221), dove accentrò il potere nelle proprie mani sottraendoli ai feudatari che li avevano precedentemente usurpati, promulgò le Costituzioni di Melfi nel 1231. Due anni dopo inasprì la normativa antiereticale equiparando l'eresia ai delitti di lesa maestà[2]. Si preoccupò inoltre di formare un ceto di funzionari colti che potessero occuparsi della cosa pubblica fondando l'Università di Napoli e reintrodusse il Diritto romano. Favorì anche la scuola medica salernitana[3] mentre Palermo e la corte divennero il centro dell'Impero e, grazie al mecenatismo del re (definito per la sua cultura Stupor mundi), un importante polo culturale, punto d'incontro tra le tradizioni greca, araba ed ebraica. Qui nacque la Scuola poetica siciliana con la prima poesia volgare italiana mentre politicamente il sovrano anticipò – come scrive Santi Correnti – "la figura del principe rinascimentale". Il suo regno fu tuttavia caratterizzato dalle lotte contro il Papato e i Comuni italiani, nelle quali riportò vittorie o cedette a compromessi, dotò l'isola e il meridione di castelli e fortificazioni. Volle essere sepolto nella cattedrale di Palermo, quando nel 1250 si concluse improvvisamente la sua vita, alla quale seguirono delle lotte per la successione.

Il periodo angioino e l'insurrezione dei Vespri Dopo la morte di Federico II, il trono passò al figlio naturale Manfredi. Quest'ultimo appoggiò la controffensiva dei ghibellini toscani che nella Battaglia di Montaperti (1260) inflissero una sconfitta ai guelfi e si alleò con Genova, Venezia e con la Casa di Barcellona, grazie al matrimonio tra una delle sue figlie, Costanza e il re Pietro III.
Manfredi però venne scomunicato e nel 1263 il francese papa Urbano IV offrì la corona a Carlo I d'Angiò, fratello del Re di Francia Luigi IX. Questi promosse una spedizione militare per conquistare il Regno: Manfredi venne sconfitto a Benevento e nel 1265 il nuovo papa Clemente IV, lo proclamò Rex Siciliae.
Il nipote di Manfredi, Corradino, legittimo erede di Federico II, cercò di riconquistare la corona, ma venne sconfitto nella Battaglia di Tagliacozzo, venendo poi decapitato nella Piazza del Mercato a Napoli. Sepolto nella Chiesa del Carmine a Napoli, la sua giovane età e la morte ne mantennero vivo il ricordo.
Di fronte all'alleanza tra papato ed angioini e alla debolezza dell'impero i signori e le città ghibelline dell'Italia settentrionale chiesero aiuto a Pietro III di Aragona. Nel contempo, in Sicilia, si andava sviluppando un forte malcontento nei confronti del governo angioino dovuto soprattutto per il trasferimento della capitale del Regno da Palermo a Napoli, ma anche a causa del durissimo governo che era esercitato che stava riducendo in miseria il paese, malcontento sfociato nello scoppio di una sommossa, ben nota come Vespri siciliani, che determinò la cacciata degli Angioini dalla Sicilia.
I siciliani chiesero aiuto a Pietro III d'Aragona che, quale marito di Costanza di Svevia, figlia di Manfredi, si considerava titolare della corona di Sicilia. Questo coinvolgimento allargò il conflitto: il papa Martino IV ed il re francese Filippo III si schierarono a fianco degli Angiò. Il conflitto si concluse nel 1302 con la Pace di Caltabellotta: si affidava la Sicilia (Regno di Trinacria) a Federico III d'Aragona, fratello del re Giacomo II d'Aragona (succeduto nel frattempo a Pietro III), con la condizione che alla sua morte la corona sarebbe tornata agli angioini, cosa che però non avvenne. uesti infatti nel 1313 cambiò il titolo in "re di Sicilia" creando l'assurdo per cui esistevano due regni di Sicilia e due re di Sicilia.

I re di Trinacria e gli Aragonesi A Pietro III d'Aragona successero in sequenza Giacomo e Federico III, i due saranno in guerra con i rispettivi regni di Aragona e di Sicilia, in quanto Giacomo aveva nuovamente ceduto la Sicilia agli Angioini, Federico riuscì a resistere alle invasioni di mezza Europa (Regno di Francia, Papato, Regno Angioino di Napoli, città Guelfe italiane e Regno d'Aragona) a Federico seguì il figlio Pietro II, e successivamente Federico IV; a questi successe, senza lasciare eredi, la figlia Maria di Sicilia che sposerà Martino I anche egli morirà nel 1409 e a succedere sul trono siciliano ci sarà il padre Martino II duca spagnolo . Per un breve periodo la sede del regno fu Catania. La linea di successione di Costanza si era estinta e con essa decadde l'indipendenza regale del regno.
Quando infatti Ferdiando I Trastamara fu eletto re d'Aragona egli dichiarò la Sicilia vicereame spagnolo e istituì un vicariato sull'isola. Per un breve periodo si sperò di tornare ad avere una propria corte, in quanto Martino I sposò Bianca d'Evreux, e quindi alcuni nobili siciliani cercarono di offrire qualche giovane rampollo (un tale Niccolò Peralta) alla regina.
Dopo Ferdinando I regnò Alfonso il magnanimo, che unì alla corona d'Aragona anche il regno di Napoli e lo unì anche se solo formalmente sotto la corona di rex Utriusque Siciliae in quanto le investiture papali ed i regni erano ormai diventati due. Egli istituì a Catania l'antica università, per secoli unica del Regno, nel 1444.

Il lunghissimo vicereame e il declino della Sicilia
Dal 1415, la Sicilia ospitò un primo viceré anche se fu solo formale, in quanto il regno dell'isola era ancora governato sotto la tutela di Bianca d'Evreux che lascerà l'isola l'anno successivo. Questo sarà un periodo di grossa decadenza, segnato dal malgoverno dei vari vicerè che si succedettero sulla poltrona, molte le rivolte popolari, talvolta anche sanguinose, come per esempio quella del 1516 contro Ugo Moncada chiamata "Pietra del Malconsiglio".
Nel XVII secolo la crisi arriva al culmine tanto che le rivolte del popolo aumentano in numero ed intensità, nel 1647 toccò a Messina e poi a Catania. Ma l'apice della rivoluzione si toccò l'anno successivo a Palermo.[6] Tra i rivoltosi più famosi troviamo Nino La Pilusa, che nel 1647 aveva dichiarato la Sicilia stato indipendente, Giuseppe D'Alesi, originario di Polizzi Generosa. Quest'ultimo iniziò a rivoltarsi contro gli spagnoli poco dopo i moti rivoltosi di Nino La Pilusa, organizzando dapprima una congiura di corte che però viene scoperta a causa della presenza di due spie. Successivamente viene eletto dal popolo capitano generale, con questo titolo riunisce gli uomini, assale l'armeria reale e con queste armi va alla conquista del palazzo reale riuscendo in un primo momento a scacciare il viceré. Divenuto momentaneamente a capo del viceregno riunisce artigiani e nobili per discutere un nuovo statuto autonomo, proclamerà una rivoluzionaria repubblica sotto il controllo degli stessi siciliani. I nobili siciliani però, non restarono contenti di questo nuovo statuto ed organizzarono una contro rivolta che permise al re di rientrare a capo del viceregno. D'Alessi e i suoi collaboratori vennero uccisi e trucidati.
Il periodo vicereale per conto della Spagna finirà nel 1713 a causa della guerra di successione iberica. Nel 1713 il trattato di Utrecht riconosce il Ducato di Savoia annesso al regno di Sicilia con re Vittorio Amedeo che ne manterrà la sovranità fino al 1720, quando in cambio gli verrà assegnato il Regno di Sardegna. I Dragons Jaunes (successivamente reggimento "Nizza Cavalleria") conquistano l'isola ed entrano a Catania. Il regno e l'omonima isola saranno gestiti dai viceré per conto degli Asburgo d'Austria per un breve periodo.

Il Regno di Carlo III di Borbone
Nel 1734 la Sicilia si ritrovò unita a Napoli, allorché Carlo, infante di Spagna,mosse alla conquista del Regno di Sicilia diventandone Re col titolo di Carlo III. Egli non aveva trovato difficoltà a cacciare gli austriaci il cui esercito non aveva opposto molta resistenza. I siciliani, da parte loro, non avevano fatto nulla per ribellarsi all’Austria e per chiedere l’aiuto spagnolo per la liberazione, tuttavia la costituzione della nuova monarchia borbonica, che riuniva in un unico stato indipendente e sovrano il Mezzogiorno continentale ed insulare, fu salutata dalla popolazione con straordinario entusiasmo. Questo era dovuto al fatto che, liberato dalla condizione di provincia, il Mezzogiorno poteva affrontare un processo di trasformazione che consolidasse il nuovo dell’indipendenza. Il 2 settembre 1734, il generale spagnolo Montemar prese possesso dell’ufficio di Viceré a Palermo; ma Montemar non rappresentava il solito Viceré, come tanti ce n’erano stati in precedenza, in quanto il suo mandato era quello di gettare le premesse militari e politiche per la fondazione di una nuova monarchia. La novità era evidente per il fatto che le truppe spagnole, per tanto tempo strumento di dominio straniero, adesso concorrevano a dar vita ad uno stato indipendente e nazionale che avrebbe rappresentato il fatto nuovo del settecento italiano. I nobili palermitani anelavano da molto tempo ad avere un proprio Re che garantisse loro tutti i simboli del potere e del prestigio, per questa ragione si sentirono lusingati quando Carlo III di Borbone si fece incoronare a Palermo. Solo dopo che il Re giurò nel Duomo di Palermo sui Vangeli il rispetto e l’osservanza della Costituzione e dei Capitoli del Regno di Sicilia, oltre che dei privilegi e delle consuetudini della sua capitale, i baroni e gli ecclesiastici siciliani gli giurarono fedeltà ma senza manifestare mai nulla di più che un consenso di massima . L’incoronazione avvenne mentre le cittadelle di Messina, Siracusa e Trapani erano ancora in mani austriache. La fretta di ricevere la corona proprio a Palermo non fu dettata dal desiderio di Carlo di compiacere i siciliani, bensì dall’atteggiamento dello Stato Pontificio al quale occorreva contrapporre un pronto riparo. La Santa Sede considerava i Regni di Napoli e di Sicilia feudi della Chiesa romana, anche se con differenti condizioni di vassallaggio. Riguardo Napoli i giuristi del tempo si chiedevano se la Chinea offerta al Papa il giorno di SS. Pietro e Paolo potesse considerassi atto di vassallaggio; il dubbio esisteva, ma nessuno si sentiva di escludere il preteso diritto della Chiesa.
Per la Sicilia, invece, si aveva motivo di affermare che non si trattava di feudo soggetto a servitù poiché il Re, per diritto ereditario, agiva quale rappresentante del capo della Chiesa e non era quindi tenuto a sottoporsi all’investitura papale.
Non sentendosi certo di essere dalla parte della ragione, nello smentire il preteso diritto della Chiesa sul Regno di Napoli, Carlo III scelse la formula ambigua di Re delle Due Sicilie e, bruciando i tempi, ricevette a Palermo la corona di Sicilia legittimando di fronte a Roma il nuovo regime borbonico e la conquista del regno meridionale. Fu un successo per la sua diplomazia e di conseguenza uno scacco per la politica vaticana.
La grande cerimonia dell’incoronazione a Palermo, imposta da circostanze di forza maggiore, fece pensare che Carlo volesse fissare la propria dimora nella capitale siciliana invece che a Napoli. Fu una cerimonia fastosa e solenne rimasta celebre negli annali della cronaca palermitana; ma la speranza di una corte reale insediata a Palermo durò solo una settimana, infatti allo scadere di questa il Re spostò la capitale a Napoli lasciando a Palermo un Viceré.
La partenza di Carlo da Palermo rappresentò per i siciliani un affronto che generò quel clima di profonda delusione nel quale si rafforzò l’antico dualismo tra Napoli e Palermo che avrebbe avuto, negli anni seguenti, risvolti drammatici.
Carlo III si trovò a regnare su uno stato nel quale molti dei poteri della sovranità, che altrove costituivano normali attributi del regno, risultavano concentrati parte nel clero e nel baronaggio, parte nelle comunità territoriali e parte negli stessi organi amministrativi e giudiziari che, seppure formalmente dipendenti dal Re, nella sostanza risultavano appannaggio di ceti e gruppi particolari. La nuova monarchia meridionale, che non poteva contare sul sostegno apprezzabile di forze interne, si trovò quindi nella necessità di costruire un apparato politico ed amministrativo che ne garantisse il funzionamento. Ma per attuare un simile programma si rendeva indispensabile riportare alla corona poteri che di fatto s’erano perduti nei meandri della consuetudine, oppure erano divenuti strumenti di forza nelle mani di caste privilegiate.
Nel 1738, dopo la firma del trattato di Vienna e la concessione dell’investitura da parte del Papa, Carlo III affidò a Montallegre la direzione politica di un piano di riforme contenente una serie di proposte ufficialmente tendenti al buon governo e al miglioramento del Regio erario, ma che in effetti scaturivano dalle raccomandazioni della corte spagnola in base alle quali vi era da tener testa al baronaggio per non esserne sopraffatti. Il piano di riforme, una vera e propria strategia volta a rafforzare il potere regio, si era avvalso di uno studio sull’amministrazione della giustizia affidato ad un gruppo di giuristi e alti funzionari; si prevedeva di limitare il numero dei chierici e dei religiosi, di ridurre la consistenza del patrimonio ecclesiastico proibendo alla Chiesa l’acquisto di nuovi beni immobili, inoltre si prospettava la necessità di togliere ai baroni la giurisdizione ritenuta di provenienza illegale. Altri suggerimenti riguardavano la concessione di vantaggi ai commercianti e l’attuazione di misure di austerità tendenti a moderare il lusso e a ripartire più equamente il peso fiscale tra i sudditi.
La nomina del principe Corsini a Viceré di Sicilia rappresentò un fatto politico e rilevante, nel senso della precisa volontà di perseguire l’obiettivo delle riforme acquisendo un minimo di consenso. Corsini, infatti, una volta insediatosi a Palermo, non si comportò mai da Viceré assolutista ma ritenne di dover agire da Viceré costituzionale. Questo metodo, insolito per quel tempo, lo rese ben visto negli ambienti politici palermitani e gli consentì di svolgere una certa mediazione tra le direttive assolutistiche del governo e le opposizioni che puntualmente nascevano nella capitale siciliana. Per evitare che contrasti ampi e diffusi nei due regni potessero bloccare il piano di riforme, fu previsto uno sviluppo separato, articolato e anche differenziato nei tempi. Si decise, che alcune riforme venissero attuate ora nel Regno di Napoli ed ora nel Regno di Sicilia e, infine, che altre ancora fossero proposte esclusivamente nell’uno o nell’altro regno.
Il riformismo di Carlo di Borbone venne però sempre considerato, dal ceto nobile e dall’ambiente ecclesiastico, come una sorta di provocazione, in particolare quando questi decise di avvalersi della collaborazione di personale ebraico nell’intento di sviluppare le attività commerciali e finanziarie dei due regni. Preti e gesuiti fomentarono la popolazione con una propaganda sfrenata a base di pregiudizi e di superstizioni, tanto da costringere il governo a tornare sui propri passi.
Ancora più forti furono le resistenze, specie da parte dell’aristocrazia, quando Carlo decise di istituire la figura del Supremo Magistrato del Commercio tanto a Napoli che in Sicilia. L’iniziativa provocò la sollevazione degli ambienti giudiziari partenopei e siciliani nonché del baronaggio e delle istituzioni rappresentative dei due regni. In Sicilia il Parlamento, espressione diretta del potere baronale, arrivò ad offrire al Re un donativo di duecentomila scudi affinché si riducessero le competenze del Tribunale del Commercio, annullando in pratica la riforma. Tale opposizione rappresentò la prima manifestazione di lotta politica nei confronti del nuovo regno, condotta all’insegna di comuni propositi e iniziative da parte delle magistrature siciliana e partenopea e delle due nobiltà. Montallegre, al cospetto di un’opposizione così estesa ed ostinata, dovette soccombere.
Ma il programma di riforme doveva continuare, per cui sul fronte della giurisdizione baronale e di quella ecclesiastica si decise di adottare provvedimenti differenziati, allo scopo di non provocare una comune resistenza della nobiltà e del clero nei due regni.
Il contrasto, comunque, apparve evidente quando, nel 1740, il Comune di Sortino chiese di passare dal dominio baronale a quello regio pagando un congruo riscatto. Tale singolare decisione con iniziativa apparentemente circoscritta e limitata a quel Comune, mise in discussione la giurisdizione baronale in Sicilia. L’Università di Sortino avanzava la sua richiesta con evidente consenso e manifesto appoggio del governo, infatti, il suo passaggio sotto il dominio regio avrebbe portato al fisco un’entrata straordinaria annua di mille onze. I baroni sapevano che se fosse passata la richiesta, molti altri comuni feudali dell’isola avrebbero seguito il suo esempio ed essi avrebbero perduto buona parte del loro effettivo potere. La difesa delle ragioni della nobiltà venne affidata al maggior avvocato del tempo Carlo Di Napoli, e questi diede alla causa un carattere preminentemente politico. La sua proposizione divenne argomento privilegiato della giurisprudenza siciliana e punto di riferimento del pensiero dominante dell’aristocrazia isolana. La tesi di Di Napoli rivendica l’esistenza di diritti feudali, la cui origine e natura sono originari e fondamentali, pertanto in Sicilia, tanto la monarchia quanto il feudo, essendo nati entrambi contemporaneamente con la conquista normanna hanno pari dignità e la momentanea riduzione al fisco regio di un bene feudale non ne muta la natura a differenza di quello demaniale che può trasformarsi in feudale. Questa visione della feudalità in Sicilia venne accolta dal Tribunale del Real Patrimonio che dichiarò infondata la pretese del Comune di Sortino e respinse la sua richiesta di passare sotto il dominio regio. Il governo si affrettò a chiudere la vertenza mentre i baroni, approfittando della clamorosa vittoria, attaccarono a viso aperto le pretese riformatrici di Carlo tra cui, in modo particolare il Supremo Magistrato al Commercio.
Dopo la conclusione della causa di Sortino, il programma di riforme di Montallegre subì il definitivo arresto prima in Sicilia e poi a Napoli. Lo stesso Montallegre, qualche tempo dopo, fu costretto a lasciare la guida del governo e rientrare a Madrid. La stessa politica riformistica di Carlo III si spense ed il re venne indotto a cercare sempre di più l’accordo coi baroni.
Il nuovo Viceré Labieufuille, succeduto a Corsini nel 1747, in mancanza di coerenti direttive da Napoli si guardò bene dal prendere posizione contro i baroni siciliani; così la giurisdizione baronale divenne, giorno dopo giorno, diritto incontrastabile tanto che Fogliani, divenuto Viceré nel 1755, affermava di ispirarsi alle istruzioni del ministro spagnolo conte Olivares: “Coi baroni in Sicilia si è tutto, senza i baroni si è niente” . Il regno di Carlo III che era nato nel segno del riformismo e con l’intento di limitare il più possibile il dominio dei baroni, si concluse con un governo basato su una filosofia politica del tutto opposta.

Il Regno di Ferdinando III (la Reggenza di Bernardo Tanucci)
Nel 1759 Carlo optò per il trono di Spagna rimasto vacante dopo la morte del fratello Ferdinando che non aveva lasciato eredi. In altri tempi il Re delle Due Sicilie avrebbe cinto la corona di Spagna divenendo capo di un’unica monarchia; ma Carlo, rispettando i trattati internazionali che vietavano espressamente tale unione, provvide a spartire i suoi domini nell’ambito della famiglia. Sul trono di Napoli mise il terzogenito Ferdinando, un bambino di otto anni, riconoscendo al secondogenito Carlo Antonio il titolo di principe ereditario di Spagna.
Il nuovo Re Ferdinando III, che conservò il titolo di infante di Spagna, fu messo sotto la tutela di un consiglio di reggenza il cui compito era in parte di reggere la cosa pubblica fino alla maggiore età del giovane monarca, ed in parte di assicurare la sua educazione. La reggenza era composta da tre nobili napoletani e da due nobili siciliani secondo un preciso rapporto di equilibrio. La presidenza era affidata al Principe di San Nicandro che assieme al Marchese Bernardo Tanucci assunse specifiche funzioni pedagogiche.
Tanucci, oltre a svolgere una forte azione riformatrice, aveva il delicatissimo compito di tenere i rapporti con Carlo III; in pratica Tanucci fu il tramite della volontà del Re di Spagna a cui era rimasta la suprema podestà di dettare la politica dei due regni. I componenti del consiglio di reggenza era in pratica soltanto delle controfigure, l’ispiratore era Carlo III mentre l’anima e il cervello era naturalmente il Primo Ministro Bernardo Tanucci, un maledetto toscano, che approfittò dell’interregno per tentare di condurre a termine le riforme che Carlo aveva iniziato ma che non era riuscito a portare a buon fine.
Il giovane Ferdinando si mostrò refrattario a qualsiasi serio impegno, a cominciare da quello per lo studio.
Nel 1768 gli venne data in sposa Maria Carolina d'Austria: elegante e ben educata lei, rozzo e incolto lui, si trattò di un matrimonio male assortito nel quale la Regina, scaltra oltre ogni limite, avrebbe avuto il sopravvento soprattutto politico. Ferdinando, che nel frattempo aveva raggiunto la maggiore età di sedici anni, non conosceva i suoi due regni e le differenze che esistevano tra di essi. Egli soleva accettare le decisioni di Tanucci senza neanche discuterle, lo stesso Primo Ministro ebbe così a scrivere: “trovai il Re all’oscuro di tutto di Parlamenti siciliani, convenne farne spiegazione nel corso della quale vidi che era al Re una novità poco gradita il potere e il rito del parlamentario, e ravvisai che questo nell’animo rendeva più gradito il Regno di Napoli ove corrono senza Parlamenti le rendite regie”. Da parte sua Maria Carolina affermava che il giovane consorte era totalmente disinformato al punto che “stimando la Sicilia quanto Capri o Procida, sarebbe stato capace, tra la mancanza di lumi e la fretta di passare ad uccidere una gazzotta, di concedere quel regno in feudo ad alcuno dei suoi garzoni”.
Un primo motivo di scontro tra Tanucci e la nobiltà siciliana si ebbe su una delle questioni più delicate di ordine costituzionale, cioè il giuramento di fedeltà al nuovo Re da parte del Parlamento siciliano e a sua volta il giuramento di rispetto delle costituzioni e dei privilegi del Regno da parte del Re medesimo. Dato che il sovrano non aveva raggiunto ancora la maggiore età, il giuramento venne prestato, su procura, dal viceré Fogliani e, in tal modo, Tanucci riuscì a rimandare la cerimonia spostandola al compimento della maggiore età del Re. Una volta che questi divenne maggiorenne, la nobiltà siciliana non dimenticò l’impegno e prese l’iniziativa per far sì che Ferdinando, seguendo l’esempio del padre, si recasse a Palermo. Tanucci, ancora una volta, adducendo che la cerimonia dell’incoronazione avrebbe avuto incidenza nei rapporti con la Chiesa, a causa del presunto legame feudale del Regno con la Santa Sede, decise di non fare celebrare alcuna cerimonia.
La nobiltà siciliana, enormemente delusa ed offesa, non riuscì a digerire la cosa.
Intorno al 1770 i baroni siciliani sferrarono un altro colpo contro il potere regio mediante la rifeudalizzazione delle cariche ecclesiastiche: sfruttando una legge del 1738, che riservava ai prelati siciliani la direzione delle chiese di regio patronato, occuparono, con un’operazione senza precedenti, tutti i principali posti di comando dell’organizzazione religiosa isolana. Tutti i vescovi nominati in quel periodo in Sicilia erano rampolli del ceto baronale e le abbazie, i cui rappresentanti avevano diritto di sedere in Parlamento quali rappresentanti del braccio ecclesiastico, furono appannaggio della nobiltà. Nacque così uno stretto legame fra nobiltà e chiesa siciliana e quest’ultima finì per rispecchiare gli interessi della prima. Il marchese Tanucci cercò in tutti i modi di allentare i legami sociali fra Chiesa e baronaggio; egli stabilì che i vescovi siciliani venissero scelti fra i parroci invece che fra i regolari, gli abati e i canonici. Approfittando dell’enorme impressione che aveva suscitato la notizia del saccheggio, da parte dei pirati saraceni, dell’isola di Ustica e della riduzione in schiavitù di tutti i suoi abitanti, Tanucci, alla morte dell’abate titolare della Chiesa di Santa Maria dell'Altofonte, ne conferì al fisco le consistenti rendite allo scopo di reperire il denaro necessario alla costruzione di quattro navi da guerra da adoperare nella sorveglianza delle coste, inizio della creazione di una Marina fino a quel momento quasi del tutto inesistente.
Il Pontefice non poté dire di no alla richiesta di un suo consenso, anche perché il Primo Ministro gli aveva offerto, come contropartita, la sorveglianza delle acque territoriali pontificie. I baroni vennero presi in contropiede. Non potevano certamente opporsi all’operazione dopo che il Papa aveva offerto il proprio consenso, né avrebbero potuto inimicarsi la popolazione del Regno che era sgomenta per le notizie arrivate da Ustica, dove la popolazione era stata quasi per intero massacrata e rapita dai pirati saraceni, vedeva di buon grado il fatto che la tranquillità sul mare fosse ottenuta con l’impiego delle rendite ecclesiastiche anziché con opposizioni fiscali di vario genere.
L’espulsione dei gesuiti, avvenuta nel 1767, rappresentò il punto di forza della politica di Tanucci che mirava a provvedere ai bisogni della società e dello stato con l’impiego dei beni ecclesiastici.
Il provvedimento, che costituì forse la riforma più importante non solo del Settecento italiano ma di tutto il Settecento europeo, fu reso possibile dalla debolezza dimostrata dalla Chiesa cattolica che, dalla seconda metà del secolo, era piombata in un periodo di profonda crisi con una forte perdita di peso in campo internazionale.
I gesuiti, che rappresentavano qualcosa in più di un semplice ordine religioso, personificando una certa concezione della Chiesa, quella consacrata dal Concilio di Trento e basata sul principio di autorità portato alle sue estreme conseguenze, avevano permesso ad essa di superare la crisi dello scisma protestante. Sul piano politico erano una sorta di avanguardia, ideologicamente monolitica, impegnata ad assicurare l’egemonia della Chiesa nel mondo. Ma proprio il loro essere in prima linea negli affari ecclesiastici li portò allo scontro con Clemente XIII, il quale soppresse la Compagnia di Gesù. Appena il Pontefice emanò la bolla di soppressione Tanucci emise il bando di espulsione.
L’espulsione dei gesuiti apriva problemi inediti per i governanti napoletani e offriva possibilità notevoli per sperimentare programmi di riforma. Bisognava organizzare nuove scuole che sostituissero quelle tenute dai gesuiti, inventare un nuovo corpo insegnanti e, infine, trovare un modo per utilizzare le proprietà che l’Ordine possedeva nel Regno.
In Sicilia il patrimonio terriero dei gesuiti era molto più esteso che nel continente e comprendeva le terre più coltivate e più redditizie di tutta l’isola.
Con una coraggiosa politica sociale, che si rifaceva all’insegnamento di Genovesi, Tanucci ripartì in quote le proprietà gesuitiche e le mise all’asta, preoccupandosi che una parte venisse assegnata ai contadini.
Oltre tremila contadini poveri ebbero assegnati porzioni di terra; alla distanza, però, i risultati furono modesti tanto perché l’amministrazione dell'isola frenò in tutti i modi i contenuti più rilevanti della riforma, tanto perché molti contadini non ricevettero l’indispensabile sostegno finanziario per condurre la lavorazione dei campi.
La legislazione governativa, basata in un primo tempo sulla cessione ai contadini dei terreni incolti, privi di alberi, di case e di altre migliorie fondiarie, venne modificata in quanto se ne avvantaggiava il baronaggio accaparrandosi la parte più redditizia del patrimonio che era stato gesuitico.
Vennero, così, assegnati ai contadini anche i terreni migliorati.
Tale nuova legislazione, emanata nel 1773, cioè sei anni dopo l’espulsione dei gesuiti, rappresentò il primo serio tentativo di riforma e di colonizzazione del latifondo meridionale e, comunque, la più consistente operazione di riforma agraria attuata in Italia nel corso del Settecento.
Il baronaggio, non più disposto a subire l’attacco delle riforme, rialzò la testa e, con l’intento di dare una dura lezione al Primo Ministro, aizzò la folla spingendola ad una violenta rivolta per dimostrare che senza i baroni in Sicilia non si poteva governare. La rivoluzione di Palermo, che si svolse nei mesi di settembre e ottobre del 1773, fu densa di inquietanti implicazioni. Essa poteva apparire come una tipica rivolta cittadina del tutto simile a tante altre, ma il fatto nuovo consisteva che al fianco della plebe si accompagnava, anche se nascosta, la classe dominante locale che incoraggiava gli insorti a prendere il governo della città. Quindi quella del 1773 fu una rivolta politica il cui obiettivo era quello di stroncare la politica riformistica di Tanucci senza però intendimento di sottrarsi al potere borbonico. L’apparato statale e amministrativo subì un’immediata paralisi e l’esercito, messo nell’impossibilità di agire, non poté proteggere il Viceré Fogliani che si vide costretto a fuggire da Palermo. Alla fuga del Viceré seguì l’insediamento di un governo provvisorio sottoposto alla guida dell’Arcivescovo di Palermo Serafino Filangeri. Tanucci, traendo spunto dalla rivolta, per abbassare il più possibile la potenza della nobiltà siciliana a corte, diffuse la sensazione che le basi del regno meridionale non fossero per niente sicure a causa dell’infedeltà dei baroni; da ciò prese corpo e consistenza un orientamento antisiciliano e antibaronale che avrebbe, in seguito, influito sullo stesso ruolo del partito siciliano nell’ambito dei vertici dello Stato. Infatti, ristabilito l’ordine e riaffermato il potere borbonico, cominciò ad emergere il preciso intento di estromettere il baronaggio siciliano dal ruolo primario di governo del paese e di instaurare un regime nel quale Napoli avesse piena supremazia su Palermo. Nel 1774 viene nominato Viceré il Principe di Stigliano, spagnolo di nascita ma napoletano d’adozione; questo contrastava con la tradizione secondo la quale il Viceré di Sicilia doveva essere scelto tra personaggi non napoletani. Il nuovo Viceré doveva portare avanti, come fece, la politica antisiciliana e antibaronale. I baroni, per risposta, fecero in modo che il Marchese della Sambuca, siciliano ed ambasciatore di Re Ferdinando a Vienna, si facesse interprete e strumento di un’operazione volta a screditare Tanucci di fronte ali regnanti. Nel frattempo Maria Carolina era entrata nel governo dello Stato e la sua avversione verso il Primo Ministro fece in modo che strumentalizzasse tutte le avversioni che Tanucci aveva provocato in Sicilia con la sua politica di riforme. La Regina si era insediata in forza ad una clausola che la madre aveva fatto inserire nel contratto di nozze, in base alla quale la partecipazione, con voce deliberativa, al governo doveva avvenire dal momento in cui fosse nato il primo erede maschio. L’erede era nato anche se a corte si vociferava che il padre non fosse il Re. Primo atto ufficiale della Regina fu l’allontanamento di Tanucci dalla carica di Primo Ministro, accusato di essere troppo vicino alla Spagna. Il vecchio Ministro, ormai ottuagenario, si ritirò, con soddisfazione dei baroni siciliani, e morì poco dopo lasciando un patrimonio irrisorio e in tutti la sorpresa di scoprire che anche i Ministri potevano essere onesti. Maria Carolina affidò l’incarico al Marchese della Sambuca che, in quanto ambasciatore a Vienna, doveva avere respirato l’aria degli Asburgo. La figura di questi è alquanto particolare, infatti egli tentò di tenersi in bilico tra gli interessi spagnoli e quelli asburgici, finendo per contrariare tanto Carlo III che Maria Carolina, inoltre non riuscì a percepire che favorire l’influenza austriaca sul Regno avrebbe danneggiato ulteriormente il baronaggio siciliano, del quale faceva parte, essendo l’Austria interessata ad affermare un potere centralizzato e quindi antiautonomista.
Maria Carolina, autoritaria, capricciosa e spregiudicata, soleva scegliere i suoi collaboratori tra i compagni d’alcova. Il sistema valse anche per l’ammiraglio Acton, un irlandese che aveva servito nella marina francese. Essa, attratta dal fascino dell’uomo, ne fece il Ministro della sua Marina, una Marina che, nei piani della Regina, avrebbe fatto diventare Napoli il caposaldo marinaro dell’impero austriaco onde contrastare il dominio mediterraneo della Spagna e della Francia. Il Marchese della Sambuca, capita finalmente la posta in gioco, tentò inutilmente di spingere Ferdinando a prendere provvedimenti per scongiurare il pericolo di un complotto. I due amanti per risposta lo incriminarono per alto tradimento con l’intento di screditare anche l’ambiente filoborbonico che, all’interno della corte, era molto forte. Il tentativo di incriminazione non riuscirà e Maria Carolina dovrà limitarsi solo a chiedere le dimissioni dell’incauto Ministro. Il problema siciliano era, comunque, ancora insoluto soprattutto negli aspetti che riguardavano il potere dello Stato e le diffuse tensioni sociali. Da parte sua il Viceré Stigliano aveva dimostrato di non possedere la forza, l’intelligenza, la capacità e la fantasia necessarie per attuare soluzioni corrispondenti al nuovo spirito pubblico, ispirato alle nuove concezioni illuministiche dello Stato. La sua fuga e la fine del suo viceregno furono, per così dire, fatali e necessarie per un improrogabile tentativo di svolta. La scelta per la nuova carica di Viceré in Sicilia cadde sul Marchese Domenico Caracciolo, ambasciatore napoletano a Parigi, uomo di carriera diplomatica di cui non si conoscevano, in quanto non sperimentate, le doti di amministratore, governante e politico.

Il Regno di Sicilia nel periodo napoleonico
Ferdinando IV parte da Napoli, suo ex regno, il 23 gennaio 1806, in fuga dalle truppe napoleoniche, al suo posto Napoleone elegge il fratello Giuseppe, fuggendo a Palermo. Ferdinando approda in Sicilia, suo ultimo regno e ne mantiene il governo anche grazie all’appoggio dell’Inghilterra, presente attraverso il suo ambasciatore lord Wiliam Bentinck, ed alle sue truppe presenti sull'isola. Quest’ultimo obbligherà re Ferdinando al passaggio di consegne verso il figlio Francesco il 16 gennaio 1812, per fare ciò Ferdinando dichiarerà un finta ed improvvisa malattia che lo costringerà a trasferirsi in campagna.
Lo stesso ambasciatore inglese William Bentinck farà pressione sul vicario generale Francesco per la concessione della Costituzione Siciliana. La nuova Costituzione Siciliana, ispirata a quella inglese, prevedeva la costituzione di un parlamento bicamerale con potere legislativo. Le camere erano suddivise in Camera dei Comuni, composta da rappresentanti del popolo di carica elettiva, e la Camera dei Pari, costituita da ecclesiastici, militari ed aristocratici con carica vitalizia. Il re, che convocava le due camere almeno una volta l’anno, poteva porre potere di veto sulle leggi del parlamento.
Sempre il re deteneva i potere esecutivo, mentre il potere giudiziario era detenuto da giudici formalmente indipendenti ma in realtà sottomessi alle decisioni del sovrano. L’intera costituzione non era ben vista dal sovrano Ferdinando, ma a causa delle pressioni inglesi, non poteva non accettarla.
Il 9 marzo 1813 Ferdinando annuncia la fine della sua malattia e rientra in possesso della sovranità del governo siciliano, mantenendo però la costituzione appena emanata e dichiarandosi intenzionato a restituire armonia nel regno.
Il 14 giugno del 1813 l’ambasciatore William Bentinck fa allontanare Maria Carolina dal regno con l’accusa di complotto verso l’Inghilterra, il 9 settembre 1814. Il 27 novembre 1814 il sessantatreenne Ferdinando sposa la più giovane Lucia Migliaccio vedova del principe di Partanna e madre di sette figli.
Nel frattempo a Vienna si svolgeva l’omonimo congresso dove i sovrani d’Europa erano intenti a riportare la situazione come era prima della rivoluzione. Il congresso era intenzionato a lasciare il trono di Napoli a Gioachino Murat, che si era alleato con gli austriaci contro Napoleone, ma presto Gioachino Murat romperà quest’alleanza. Così, re Ferdinando, partito per la Sicilia il 17 maggio 1815, riprende possesso del trono il 7 giugno. Nel 1816 i regni di Napoli e Sicilia furono riuniti nel Regno delle Due Sicilie e Ferdinando assumeva l’unica denominazione di Ferdinando I.

La fine del regno di Sicilia
Dopo il Congresso di Vienna Ferdinando IV di Borbone riottenne il controllo del Regno di Napoli e lo unì al Regno di Sicilia portando la capitale a Napoli: per fare questo diede vita ad un nuovo stato chiamato Regno delle Due Sicilie. Di conseguenza soppresse il parlamento siciliano e Palermo perse definitivamente le sedi centrali del governo.

"Senza la Sicilia, l'Italia, paese indicibilmente bello, non lascia alcuna immagine nell'anima." Goethe
Dante e Petrarca in alcune loro opere testimoniano la nascita in Sicilia della letteratura italiana, perchè nella corte palermitana di Federico II di Svevia echeggiarono i versi delle prime poesie italiane con poeti come Jacopo da Lentini (che fu, tra l'altro, l'inventore del sonetto).




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